Cenni storici

Capizzi “L’Aurea Città”

Origini

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“L’origine di questa città fu sempre ignota, e va smarrita nella notte dei secoli”: così inizia il Cap. II° della “Monografia della Città di Capizzi – Antica e moderna in Sicilia” relativo ai “Cenni sulla fondazione e vicende su Capizzi” di Nicolò Russo, insigne letterato capitino, del 1847.

L’autore e insieme a lui tanti altri, concordano nel far risalire l’origine della civiltà capitina al tempo dei Siculi o dei Sicani. Altri, infatti, si sono occupati di questa città nel passato : il Fazzello e l’Arezzo che si rifecero a Tolomeo ed a Filippo Cluverio, ma solo il Caruso avanza l’ipotesi che Capizzi come Modica a Bidi sarebbe stata costruita dai Siculi che, insediati in una prima fase lungo la costa orientale della Sicilia, si spostarono ad ovest nell’interno per sfuggire alle continue scorribande dei pirati greci.

Studi del Brea, del Cavallaro e del Pace concordano nell’ipotesi che sia il centro che il territorio capitino rientrassero, nella seconda metà del IV sec. a. C., in una serie di insediamenti tra il Simeto ed il Salso. Solamente scavi archeologici potranno confermare tali tesi che ad oggi sono tutte di riscontri oggettivi e prove materiali.

La citazione di Cicerone nelle Verrine, ove attesta che “L’Aurea Urbs Capitina” era tra quelle “vessate dalla sete dei Decumani sotto Verre”, ci dà prova inconfutabile che almeno nel periodo romano l’esistenza di un centro abitato è certo.


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2) Periodo greco-romano

Le immigrazioni dei greci si ripeterono nel 451, nel 448 ed infine nel 339 a.C. quando Timoleonte invitò i greci della madre patria a trasferirsi in Sicilia e ciò produsse un’integrazione tra l’elemento siculo e quello greco prevalente.

I greci imposero sistemi di produzione sconosciuti e usarono la forza lavorativa sicula in attività di bracciantato. Si sviluppò così più l’agricoltura che la pastorizia, cara ai siculi; cominciò lo scempio dei boschi che fu portato all’esasperazione anche dai loro successori.

Con l’avvento dei romani i piccoli proprietari terrieri vennero assorbiti dai latifondisti perché spogliati dalle vessatorie fiscalizzazioni dei pretori romani come Caio Verre.

La cultura greco-romana rompe l’armonia presente nella civiltà sicula tra l’uomo e la natura: non espresse una civilizzazione ma impose la sua cultura.


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3) I Bizantini e gli Arabi

Nel III° secolo la Sicilia subì le invasioni barbariche e fu occupata dagli Ostrogoti, finché Giustiniano e, per lui, Belisario riuscirono a riconquistarla all’Impero Romano d’Occidente.

Da questo momento iniziarono le scorribande piratesche sulle coste siciliane, che cominciarono ad essere abbandonate dalle popolazioni che si ritirarono verso l’interno.

Questo fatto sconvolse ancora una volta gli equilibri socioeconomici dei paesi dell’entroterra che videro aumentare progressivamente sia la loro popolazione che i loro commerci.

Capizzi in breve si trasformò da villaggio in città; si arricchì di molte vie di comunicazione: cinque “trazzere” la univano a Troina, Mistretta, Santo Stefano di Camastra, Caronia e San Fratello.

I Bizantini crearono a Capizzi una vera cittadella, oggi quartiere ” Casalini “, facente perno su tre chiese Santa Sofia, S. Teodoro e San Zaccaria (oggi inesistenti), e con la sua acropoli nella Chiesa di San Nicolò di Mira (oggi di Bari) ” con la porta maggiore ad occidente e il santuario ad oriente, come era costume delle Chiese orientali”.

Dall’827 al 966 d.C., quando l’ultima roccaforte greco-cristiana Rametta capitolò, gli Arabi invasero e soggiogarono la Sicilia.

Giunsero a Capizzi verso l’860 e la chiamarono Qajsi o Kabith; vi eressero un castello con funzione di fortezza e carcere; crearono un nuovo quartiere, denominato ” Raffo “, dove si insediarono prevalentemente i nuovi immigrati musulmani, arrivati in Sicilia a causa della peste scoppiata in Ifriqija. Si parla di 27.468 abitanti di cui 18.118 Musulmani e 9.350 Cristiani, nel periodo.

Tracce della cultura urbanistica islamica sono ancora evidenti nel tessuto urbano: la viabilità, infatti, è caratterizzata da uno spezzettamento dei percorsi principali in una serie di stradelle e gradinate che salgono verso la zona del Castello con un andamento a zig zag, ricollegabile anche ad una esigenza difensiva interna allo stesso abitato.

Anche questa cultura cambiò i modi di vita dei capitini : a Capizzi, come del resto anche nel resto della Sicilia, furono confiscati i beni demaniali e affidati ai nuovi coloni; gli arabi decretarono, inoltre, che chiunque avesse reso fertile un pezzo di terra ne diventava proprietario.

Aiutarono questo risveglio economico anche le nuove tecniche di produzione introdotte dai nuovi coloni.


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4) Normanni e Svevi

L’emiro di Catania, Ibn Thiman, per sbarazzarsi del suo rivale, l’emiro di Castrogiovanni (oggi Enna), Ibn al Awas, chiese aiuto al Conte Ruggero d’Altavilla di Mileto, concedendogli “la Sicilia” se fosse riuscito a battere il suo nemico.

Così Ruggero d’Altavilla, con 139 cavalieri, dopo aver conquistato Messina e la fortezza di Rametta, si spostò verso l’interno ed occupò Troina dalla quale lanciò i suoi assalti ai castelli arabi, ma tralasciando in primo tempo Capizzi. Infatti, quando l’esercito saraceno nel 1063 partì da Palermo per catturare Ruggero, scelse come base di partenza per la battaglia la località ” Birruso ” sotto Capizzi, perché alle spalle si sentiva protetto dalla guarnigione e dalla popolazione musulmana capitina.

Non appena Ruggero ebbe sbaragliato l’esercito saraceno e rivolto verso Capizzi, i musulmani preferirono (forzatamente o volontariamente) emigrare, a tal punto chele terre capitine dovettero essere ripopolate da gente della Lombardia e dal Piemonte.

Avvenne così un cambio di coloni: agli arabi successero i lombardi; Capizzi venne inglobata nei possedimenti del Conte Enrico, dei Marchesi Aleramici.

Durante l’amministrazione aleramica Capizzi fornì alla corte normanna funzionari, tributi e soldati fedeli, tanto che venne a far parte del demanio della Corona.

La ricchezza dei capitini sfiorì con l’avvento di Federico II di Svevia, il quale tolse i privilegi acquisiti dalla Sicilia in materia di commercio e impose un sistema fiscale molto esoso e sgradito.

I malcontenti sfociarono nella rivolta della Val Demone del 1232 con a capo Martini Bellione al quale si unirono i capitini per rivendicare la libertà civica che l’Imperatore aveva soppresso affidando la baronia di Capizzi a Federico d’Antiochia.

Allorché Federico II ebbe sottomesso Messina e le altre città ribelli, fece bruciare vivo il Bellione e rivolgendo verso l’entroterra fu spietato : fece radere al suolo Centuripe e il quartiere ” Casalini ” di Capizzi e ne fece trasferire le popolazioni a Palermo, dove andarono a colmare il vuoto lasciato dall’esodo musulmano. Molti capitini, però, preferirono pagare tributi molto esosi per non lasciare il proprio paese.


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5) Dagli Angioini agli Aragonesi

Capizzi, come il resto della Sicilia, non ricavò sollievo dal nuovo ” padrone ” Carlo d’Angiò. Essa venne affidata, assieme a Cerami, alla famiglia Arnoldo, e fu succube delle ruberie effettuate dai soldati angioini che, con al scusa di dover catturare Corrado Capece, capo della rivolta filo – sveva e dominatore di Nicosia e dei paesi vicini, si arricchivano a scapito della popolazione.

Così, quando partì da Monreale la ” Rivolta del Vespro “, Capizzi vi prese parte attiva partecipando all’assedio di Sperlinga, al sola città che parteggiava per la Francia: ” Quod Siculis placuit sola Sperlinga negavit “, riferisce il Fazzello.

Tale partecipazione fu tramandata fino al 1726 dal clero capitino, che nel giorno dell’Epifania, ricordava i fatti del Vespro : “A Vesperis Siculis contra Gallos”.

Con la reggenza di Pietro II d’ Aragona (1337-1341) le cose cambiarono in meglio per i capitini; due episodi rilevanti caratterizzano il periodo: l’edificazione della Chiesa di San Giacomo, le cui reliquie vennero portate dalla Spagna da Sanchio d’ Eredia nel 1427, e la concessione di allestire un emporio nel mese di Luglio di ogni anno ( e che tuttora conserva ).

Data la presenza della Chiesa Madre ci si domanda per quale motivo un sovrano, che aveva tutto l’interesse di mantenere inalterati i favori popolari, avrebbe dovuto alimentare la competitività tra una struttura fortemente sentita come nuova.

Il senso va ricercato nella volontà di fornire un ulteriore punto d’appoggio e riferimento al quartiere di nuova formazione nella zona nord dell’abitato, le cui condizioni altimetriche determinavano un disagevole collegamento con la Chiesa di S. Nicolò.

Capizzi iniziò a declinare dal 1342 tanto da rimanere soggiogata al feudalesimo di padroni come : Blasco d’Aragona, Francesco Polizzi, Bernardo Spadafora nel 1361, Enrico e

Antonio Ventimiglia nel 1393 e infine da Ugone Ballo, o de Ballis.

Nel 1405 grazie al privilegio di Re Martino, si ritornò al demanio ma solo per due anni. Nel 1407, infatti, la città, attraverso un complesso giro economico e finanziario, veniva venduta a Sanchio Rujs de Lihori, assieme alla città di Mistretta.

Nel 1448, regnando Alfonso il Magnanimo, i Capitini riuscirono a riscattare ancora una volta la loro libertà, versando al Visconte di Gagliano, Sanchio Rujs, 1.500 fiorini, ed a ritornare sotto il Regio demanio fino al 1630.


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6) IL ‘600 – Capizzi città demaniale

Il raggiungimento della libertà demaniale apportò un risveglio economico e culturale tale da produrre nel paese uno sconvolgimento in ogni sua struttura.

Furono abolite le gabelle e le dogane che risalivano agli Svevi, si favorirono i commerci e le attività artigianali, la popolazione raddoppiò grazie alle immigrazioni, il paese si ingrandì attorno alla Chiesa di San Giacomo e nel 1482 ebbe la sua rappresentanza nel braccio demaniale del Parlamento.

Il riscatto sociale e il progresso materiale dei ceti medi e inferiori portò al confronto politico, così nei primi anni del 1500 fu inserito nella formazione della ” mastra ” per il consiglio civico il nome di un “rustico”.

Questo avvenimento suscitò allarme tra i gentiluomini capitini e non, tanto che il Parlamento emanò una ordinanza per le città demaniali che riduceva i consiglieri consentendo la partecipazione soltanto agli ufficiali.


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7) Capizzi città feudale

La società capitina nel secolo XVII conobbe la crisi politica che tutte le altre città demaniali dell’isola subirono a causa del cattivo funzionamento dell’amministrazione demaniale.

Alcune famiglie, approfittando del malessere economico dei responsabili della cosa pubblica, cominciarono ad infeudare terre anche demaniali, e ciò diede vita ad una nuova aristocrazia terriera che modificò l’assetto economico di tante città siciliane.

A Capizzi si assistette alla chiusura dei boschi e delle terre comunali da parte di nuovi proprietari provenienti da paesi vicini, come i Russo o i Larcan, o da lontano come i Raimondi.

Veniva annientata la classe dei ” rustici”, che erano costretti a vendere le loro terre, e dei ” burgisi ” e dei boscaioli che non potevano usufruire del legname. Di conseguenza venivano meno il commercio e l’artigianato.

La situazione andò sempre più aggravandosi, anche se nel 1555 Carlo V, per ringraziarla dei sacrifici fatti per contribuire alle spese del regno, diede a Capizzi il titolo di ” Aurea “; a ciò si aggiunsero le continue carestie e pestilenze del fine ‘500-inizio ‘600.

Rovinati economicamente i Capitini si ritrovarono di nuovo sotto il giogo feudale: il 13 novembre 1630 la Corona vendette per 50.000 scudi le terre di Capizzi al conte di Gagliano Gregorio Castello.

Ma la famiglia Castello, come del resto tutte le famiglie nobili del tempo, viveva a Palermo e per questo affidò la gestione di Capizzi ai gabellotti, i quali se nei secoli precedenti erano semplici esattori del feudatario, nel XVII secolo diventano veri imprenditori.

I primi due membri della famiglia Castello non stravolsero gli equilibri economici del paese, limitandosi a farsi pagare il tributo annuale, così la società capitina non sopportò nei primi anni le angherie dei gabellotti.

Nei feudi, infatti, ogni attività economica e terziaria era gestita da uno o più gabellotti; essi crearono delle norme scritte che dovevano essere rispettate : imposero ad esempio lo ius pascendi, tutte le terre ogni anno dovevano essere divise in tre parti una a maggesi, una a seminerio ed una vacua che doveva servire come compenso al gabellotto terraziere.

Alla fine del secolo XVII, però anche Capizzi venne assoggettata a questo nuovo sistema politico economico.